Il Guillaume Tell di Vick: “In quest’opera ci siamo tutti noi che sfruttiamo gli altri”

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10 agosto 2013

PESARO – Che piacevole sorpresa! La Sala della Repubblica gremita, tante persone in piedi, altre addirittura nella galleria superiore, seguendo il primo degli Incontri, organizzati in occasione del Rossini Opera Festival in collaborazione con la Fondazione Rossini. La conversazione, tenuta da Ilaria Narici, Direttore dell’Edizione critica dell’istituto musicologico pesarese, ha introdotto l’ascolto del Guillaume Tell, grazie alla  presenza del regista Graham Vick e del direttore Michele Mariotti.

Tanti attenti ascoltatori mentre – come un colpo di cannone – il cielo era carico di fulmini e di tuoni. Forse il temporale abbattutosi soprattutto nella periferia cittadina ha attratto l’attenzione di così folto pubblico. Ci piace pensare, però, che i merito sia stato degli ospiti, ad iniziare da un’emozionante Graham Vick.

Hanno ragione, Michele Mariotti e Celso Albelo, da noi intervistati, e non ce ne sarebbe bisogno: Vick è un regista geniale, soprattutto ricco di idee e ideali. Certamente non è banale.

Ascoltarlo è stato emozionante, come vedere le sue opere. Le sue parole sono un inno alla giustizia, all’eguaglianza, alla libertà, anche se lui – vero laico – ha detto, a fine conferenza: “la libertà è come Dio, nessuno sa se esiste”. Non vi serbi blasfemo, perché se al mondo in tanti avessero le idee, gli ideali, del regista di Liverpool, il mondo sarebbe migliore.

Semmai la domanda è: perché la Svizzera, che è teatro della storia di Guillaume Tell, che lotta per liberarsi dell’austriaco oppressore, è così xenofoba, così razzista?

“Quando avevo 12 anni, un professore ha suonato per la nostra classe un pezzo di Mendelssohn. E ha parlato della Scozia e del mare. Io ho alzato le mani e ho chiesto: ma non sarebbe meglio ascoltare il mare stesso? Questo ricordo di accompagna. Devo confrontare le mie idee con la musica, portarle in palcoscenico. Dove non metto mai quel che ascolto, che sento, perché è già nella musica. Non voglio descrivere quel che esiste già, non voglio raddoppiare l’esistente e limitare l’immaginazione del pubblico…”.

In poche parole, Vick ha spiegato le sue scelte, ha fato capire i suoi (capo)lavori.

“Nel Guillaume Tell, non ho voluto mettere la natura in palcoscenico. Primo, perché non si può. Nell’800 non avevano l’IPhone… anche se è difficile immaginarlo. Voi adesso entrate in Google, scrivete Alpi e vedete tutto. Potete comprare un biglietto Ryanair per l’Egitto spendendo meno di quanto paghereste per assistere a uno spettacolo alla Scala. La cosa filologica che non esiste è un pubblico filologico. Chi sarà a teatro domenica sera non ha vissuto la vita negli anni di Rossini. Politica, senso civico e filosofia sono diversi da allora.    Quando i Rof mi ha invitato a fare quest’opera, ho vissuto la mia prima crisi. Ho ricordato la prima volta che sono andato a vedere questa montagna, questo Everest, questo mito che è il “Guillaume Tell”, ho resistito un atto, poi sono fuggito, annoiato totalmente. E non sono rientrato in teatro… Devo aggiungere che in passato non ho accettato La donna del lago perché  non ho trovato punti di contatto tra me e il soggetto. Ho accettato il Guillaume Tell perché ho capito che il protagonista vero non è il Tell, e neppure Arnold: il vero protagonista è il popolo. L’idea che al cuore del soggetto c’è una comunità che conserva la sua identità attraverso la danza, il canto, mi ha toccato profondamente. E ho capito perché allora lasciai il teatro dopo il primo atto: era un’opera descrittiva, che non fa per me. Vorrei spiegare altresì che sono sempre stato innamorato del’Italia, della sua arte. Quando ero giovane, il cinema italiano era il migliore al mondo. Due film mi sono particolarmente cari: il meraviglioso Novecento di Bernardo Bertolucci e, ancora più importante per me, L’albero degli zoccoli di Olmi. Una delle cose più belle mai viste, che mi ha fatto sentire il senso della terra, della famiglia, dei valori intimi umani, ma anche politici. Queste gioie erano vissute sotto il padrone…”. Lo ripete uno paio di volte.

In sala qualcuno guarda in alto, fa finta di niente. Ma è a questo punto che Graham Vick mostra le sue idee, i suoi ideali.

“Era la situazione della Svizzera sotto gli austriaci. Puoi avere tutto quello che vuoi, ma sempre sotto qualcuno che ti comanda. E’ la storia di ieri, ma anche di oggi, del nostro mondo, è la nostra storia perché acquistiamo scarpe create da schiavi che vivono in altri paesi. Siamo noi che le indossiamo, noi che mostriamo le borsette che mantengono in schiavitù i bambini dell’Indonesia e del Bangladesh…”.

La Sala della Repubblica gremita Graham Vick

La Sala della Repubblica gremita

Forse perché siamo seduti in alto, nella galleria e vediamo male, ma abbiamo l’impressione che subito dopo le parole di Vick, come se fosse intervenuto un mago, siano sparite molte borsette. Curiosamente, come mostra la foto, una borsetta era dietro il tavolo dove erano seduti i protagonisti dell’incontro.

“Bisogna capire che siamo tutti dentro quest’opera, che non siamo il popolo forte, indipendente  che  – nel Risorgimento – si batteva cercando la Patria. Noi siamo quelli che sfruttano i popoli che non hanno. E’ questo il soggetto, profondo, della regia…”.

Infine, Graham Vick ha ricordato quando ha visto in un mensile americano una grandissima scala, con una scimmia nel gradino più basso, al secondo uno di noi, sopra la scala vuota. E’ il significato del finale”.

Prima di aprire la conversazione, il presidente della Fondazione Rossini Oriano Giovanelli ha ricordato un predecessore, Giorgio De Sabbata: “uomo di profonda e raffinata sensibilità culturale, ha unito la passione civile e politica a un grande amore per la musica che lo ha portato a presiedere la Fondazione Rossini dal 1974 al 1990”.

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Un commento to “Il Guillaume Tell di Vick: “In quest’opera ci siamo tutti noi che sfruttiamo gli altri””

  1. Nadia Gennari scrive:

    Ho letto con molto interesse questo articolo perchè considero Graham Vick un grande artista. La nota stonata nel finale e cioè l’intervento di Oriano Giovanelli mi ha però disturbata. Che c’entrano questi politici di lungo corso con la cultura? Presiedere politicamente una Fondazione non vuole affatto dire che si ha una profonda e raffinata sensibilità culturale. Per carità! Basta con questa ipocrisia, non se ne può più di questi politici che si autocelebrano come se senza di loro la cultura non potesse esistere! E’ vero piuttosto il contrario!

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