di Redazione
22 settembre 2014
PESARO – Servono risorse, personale, ospedali da campo, posti letto. Servono soldi. La pesarese Roberta Petrucci, medico pediatra di Medici Senza Frontiere, è appena rientrata dalla Liberia dove per 5 settimane ha combattuto contro dolore e paura, dove il virus dell’Ebola è risorto ferocemente 6 mesi fa. “Lavorare contro l’ebola è estremamente difficile – racconta – sia sul piano medico, perché la nostra capacità è limitata, sia sul piano umano, perche’ e’ una malattia che provoca grandi sofferenze e molti dei nostri pazienti, donne, uomini, bambini, non sopravvivono. Tra la gente la paura e’ palpabile. Ma ogni guarigione e’ una festa e ci da’ la forza di andare avanti. Con l’aiuto di tutti, potremo continuare la nostra azione per salvare altre vite e fermare questa drammatica epidemia”.
I fondi raccolti dalla nuova campagna contribuiranno all’invio sul campo di personale specializzato, alla realizzazione di nuovi ospedali da campo, strutture d’isolamento e laboratori mobili per la diagnostica, alla distribuzione di kit medici e igienici su vasta scala, alle campagne di sensibilizzazione tra la popolazione e nelle strutture sanitarie locali. La donazioni al numero 45507 variano dai 2 euro per sms fino ai cinque euro per chiamate da rete fissa.
Roberta, 38 anni, dal 2008 con MDF, figlia dell’ex assessore provinciale Simonetta Romagna, vive a Ginevra ma venerdì tornerà nella sua Pesaro dove famiglia e amici l’attendono dopo la vacanza mai iniziata lo scorso agosto (MSF la chiamò in missione urgente). “C’è una procedura di sicurezza rigidissima prima di partire, quando sei lì e prima di tornare a casa – spiega, dopo la notizia della dottoressa francese di MSF che ha contratto il virus dell’ebola -. Il materiale che indossiamo rende difficile lavorare ma è indispensabile: viene indossato sempre in coppia proprio per evitare che uno dei due commetta errori. Ma il rischio non può mai essere zero. La paura è fondamentale: sarebbe da incoscienti non averne. Questa è stata sicuramente la missione più difficile a cui ho preso parte, è stato importante vivere in comunità con gli altri medici internazionale in modo da condividere emotivamente questa esperienza”.
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