La Ruta por Hospitales, semplicemente meravigliosa, ma quanto è stata dura: quinta tappa del Cammino di Santiago di Luciano Murgia

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11 settembre 2018

Ecco il sesto capitolo del diario di Luciano Murgia a cui abbiamo chiesto di raccontare il Cammino di Santiago (rileggi la presentazioneprima tappaseconda tappaterza tappaquarta tappa e quinta tappa).

BERDUCEDO (Asturie, Spagna) – Faccio ricorso al mio passato di giornalista sportivo che ha seguito i tre principali sport americani: no pain, no gain. Non c’è conquista senza sofferenza, senza dolore.

Per arrivare da Campiello a Berducedo sono state necessarie 9 ore e ben 34 km, tra errori di gruppo e tolleranza concessa al mio Apple Watch, che secondo i miei compagni d’avventura di oggi non sarebbe così preciso. Verificherò al rientro in Italia.

La sofferenza è stata salire dalla quota di Campiello, poco più di 600 metri, ai 1.200 e passa e proseguire per ore in un saliscendi continuo che ha fiaccato la resistenza delle nostre gambe, messe a dura prova da alcune discese assai pericolose, come proverò a raccontare, affidandomi anche alle fotografie la cui qualità non è eccelsa – eufemismo – anche causa il cattivo funzionamento del wi-fi nella camerata dell’albergue Camino Primitivo.

Avevo presentato la tappa come una delle più belle. Il mio parere, confermato da quello di altri amici che sono con me e hanno altre esperienze, è che quella di oggi sia la tappa più bella di tutti i Cammini di Santiago.

Mi sono emozionato, ci siamo emozionati. In tutta umiltà consiglio a chi ha intenzione di (ri)fare un Cammino di mettere in programma il Primitivo. Semplicemente impareggiabile.

La mia sveglia nella camerata dell’albergue Casa Ricardo, a Campiello, suona alle ore 6,30, dopo una bella serata in compagnia di una russa, un portoghese, due signore tedesche, David, un giovane tedesco che parla un eccellente italiano, e Michael, irlandese di Dublino che ama l’Italia e adora Giovanni Trapattoni, ex Ct della nazionale di calcio dell’Isola di smeraldo, e conosce Conor O’Shea, allenatore dell’Italrugby.
Ci diamo appuntamento alle ore 7,30 a Casa Herminia, dove alloggia la maggior parte di loro, per la partenza. Solo Armando, portoghese di Porto, annuncia che andrà per Pola da Allande, la seconda opzione passando per Borres. Tutti gli altri hanno in testa solo la Ruta por Hospitales, dal punto di vista paesaggistico la più interessante.

Ma alle 7,30 pochi sono pronti e qualcuno dorme ancora. Ma c’è la nebbia e si può rinviare la partenza. Partiamo alle ore 8. Io, Armando, Michael e Natalyia. In seguito ci raggiungeranno altri amici.

La nebbia che ci circonda invita a scegliere di passare per Pola da Allande, ma ci mettiamo in strada facendo il tifo per Hospitales. Circa 50 minuti di trasferimento per Borres, camminando ai margini di una strada asfaltata. Poi inizia la salita, una rampa durissima. Ci salutano due cavallini. Un po’ di raffreddore e – dimenticati da qualche parte i fazzoletti – pulisco il naso come fanno i calciatori: due dita e via, a terra.

Presa la Ruta por Hospitales, spuntano i primi funghi. Avanziamo in un sentiero bellissimo, circondato da un meraviglioso campi di fiori colorati su cui tessono grandi ragnatele migliaia di ragni. Il primo impatto con la Ruta non potrebbe essere più coinvolgente.

Facciamo la prima sosta della giornata alla Capilla de San Pascual (secolo XVI – XVII). Sulla targa della Capilla la solita pubblicità dei taxi. Nel frattempo ci ha raggiunto Giulia Giusti, medico pediatra all’Istituto Mayer di Firenze, eccellente camminatrice. È lei che salva un conoscente, lo spagnolo Jesús, che sbaglia strada.

Commettiamo un grave errore quando ignoriamo un messaggio che pure dovrebbe essere ben chiaro. Un cartello in un cancello invita a prestare attenzione ad animali lasciati liberi. Nei pressi un cippo con una conchiglia. Nessuno di noi raggiunge il cancello, dove tutto sarebbe più chiaro, come impareremo dopo. Così procediamo sul sentiero parallelo alla recinzione, tra acqua e fango. Affondiamo più volte. Ci salva Jasper, danese in possesso di una App che l’informa sul percorso sbagliato. Ringraziamo e torniamo indietro.

Al palo del cancello era disegnata una freccia gialla! Che errore. Sbuca un timido raggio di sole che buca la fitta nebbia.

Superati 1.000 metri di quota, la strada sale dolcemente, senza strappi, dolcemente. Purtroppo sale anche la nebbia, ma alle 11,09 abbiamo superato i 13 km e spunta il sole. Momento bellissimo alle 11,36, quando finalmente, con il sole, si vedono tante montagne. Siamo a quota 1.132 e vediamo le valli in basso. Il prato sembra una pista di atletica. I piedi rimbalzano, sembra di volare. Però è stato molto faticoso arrivare fino a questa altitudine: quota 1.214. Ci fermiamo a mangiare, seduti sull’erba. Se Giulia ci ha lasciato da tempo per arrivare al traguardo alle ore 16, ci raggiunge Khin, birmano residente a Toronto.

Ripartiamo ammirati della vista e dei colori, passiamo tra mandrie di bovini e di cavalli. Scendiamo e risaliamo, sempre sopra quota 900. Nataliya accusa la fatica, Michael si ferma a farle compagnia. Arriveranno solo alle 19, due ore dopo di noi (io, Armando e Jesper). Non mancano ulteriori fatiche, come pure i pericoli della discesa repentina da Alto del Palo (quota 1.145) che ci porta sotto quota 900, scendendo sulle pietre, dove io e Armando rischiamo di cadere e Jesper cade per fortuna senza farsi male. Così per altri chilometri di salite e discese, senza incontrare alcuni, in una sorta di paradiso a quota mille. Solo al cimitero di Lago – faccio mio il commento di Armando – scopriremo di essere di nuovo tra i vivi, dopo una tappa meravigliosa che merita solo un appunto: 30 km senza una fonte d’acqua può essere molto pericoloso per chi dovesse presentarsi impreparato in una giornata di grande caldo. Noi, pure distrutti dalla fatica, ce la siamo goduta, malgrado una grandissima fatica. Spero abbiate un po’ di comprensione per la poca lucidità ed eventuali errori, ma finisco di scrivere che sono le 23,30 e all’arrivo a Berducedo ho dovuto provvedere alla cura di piedi e gambe, alla pulizia del mio corpo e a quella degli indumenti, ma anche a mangiare, festeggiando con una caña, una bella birra fresca.

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